Carissimi,
riprendiamo il discorso, lasciato in sospeso ieri, con la citazione del Cantico dei Cantici dove, nei primi versetti del capitolo terzo, si parla dell’affanno della “sposa” nella ricerca del suo Diletto. E’ questa la “fatica” della meditazione di chi vuol trovare Dio e dialogare con Lui: mettersi alla Sua ricerca liberando, per quanto è possibile, il cuore da tutte le distrazioni. E quando lo ha trovato può dire, insieme alla sposa: “Ho trovato colui che la mia anima ama…l’ho trovato e non lo lascerò più” (Cfr. v. 4). Quest’ultima frase è stata adottata dal Beato Luigi Brisson, nostro Fondatore, come motto degli Oblati di San Francesco di Sales, ovviamente in latino: “Tenui nec dimittam”. Afferma, poi, il de Sales: In ciò la contemplazione differisce dalla meditazione, che si fa quasi sempre con fatica, con lavoro e discorsi, perché in essa il nostro spirito passa di considerazione in considerazione cercando in diversi luoghi o il Diletto del suo amore o l’amore del suo Diletto”. Citando il capitolo 28 del libro della Genesi, l’Autore porta l’esempio di Giacobbe che “lavora nella meditazione” per diversi anni a servizio dello zio Labano (grande imbroglione!) pur di avere in moglie sua figlia Rachele. Lavorare nella meditazione e meditare nel lavoro…non è impossibile conciliare le due cose. Dopo aver fatto riferimento al mistero della sacra maternità della Vergine Maria, della sofferenza del Cristo durante la Sua Passione e Morte e della gloria della Risurrezione e Ascensione al cielo, il Salesio inventa una similitudine un po’ curiosa. Riportiamo interamente questo brano tenendo presente che gli amici di cui parla siamo tutti noi: “In questi divini misteri che comprendono tutti gli altri, vi è da mangiare e da bere abbondantemente per tutti i cari amici dello sposo e da inebriarsi per gli amici più cari. Gli uni mangiano e bevono, ma mangiano più di quanto bevano e pertanto non si inebriano; gli altri mangiano e bevono, ma bevono più di quanto mangino e sono appunto questi che si inebriano. Ebbene, mangiare è meditare, perché meditando si mastica, volgendo qua e là il cibo spirituale tra i denti della considerazione per sminuzzarlo, tritarlo e digerirlo, il che non si fa senza qualche fatica. Bere è contemplare, e questo si fa senza fatica né resistenza, anzi con piacere e facilmente; ma inebriarsi è contemplare così spesso e così ardentemente da essere del tutto fuor di sé per essere completamente in Dio”. Questa, continua il Nostro è la santa “ubriachezza” della contemplazione che “ci rende angelici e per modo di dire, divinizza”. Ci sentiamo in obbligo di sottolineare che il TAD non è rivolto solo a chi fa della contemplazione il suo unico scopo di vita. In senso lato, la vita contemplativa è possibile a tutti e attraverso la nostra volontà possiamo guardare “la verità della bellezza e bontà divina con una attenzione amorosa, ossia con un amore che ci rende attenti, oppure con un’attenzione che deriva dall’amore e aumenta l’amore che abbiamo per l’infinita dolcezza di Nostro Signore”.
Preghiamo con le parole della liturgia
Assisti, o Dio nostro Padre, questa tua famiglia raccolta in preghiera: tu che ci hai dato la grazia della fede, donaci di aver parte all’eredità eterna per la risurrezione del Cristo tuo Figlio e nostro Signore. Amen
Non facciamoci spaventare dal termine “contemplazione”…ed oggi “ubriachiamoci” di Dio. Buona giornata,
PG&PGR