Intervista a padre Giovanni Cannone apparsa su Abitare a Roma il 23 Gennaio 2006, qualche giorno prima delle cerimonia di insediamento presieduta dal vescovo Moretti.
Ad un anno dalla scomparsa dell’ indimenticato padre Giuseppe Chiminello e dalla dedicazione della nuova chiesa, la comunità parrocchiale di San Francesco di Sales al quartiere Alessandrino ha un nuovo parroco. Si chiama padre Giovanni Cannone – per gli amici Gianni, ndr – ed è il responsabile della Provincia Italiana degli Oblati di San Francesco di Sales. Domenica 29 gennaio, alle ore 10, con una solenne celebrazione in viale Alessandrino 585, riceverà l’incarico da S.E. il vescovo vicegerente della Diocesi di Roma, mons. Luigi Moretti.
Abitare A ha intervistato Padre Gianni.
I fedeli, ma anche gli altri abitanti del quartiere sono curiosi di sapere chi è e da dove viene il nuovo parroco…
«Bèh, sono nato a Roma, proprio qui vicino in via del Prato 14, il 17 gennaio 1953. Insomma, sono un ragazzo di borgata che torna a casa. Ordinato sacerdote il 13 settembre 1980, sono stato per nove anni viceparroco nella parrocchia di San Benedetto a Pomezia. Dall’11 giugno 1989 parroco di San Massimo nel comune di Collegno, – 55mila abitanti – nella prima cintura della provincia di Torino. Sono stato eletto padre provinciale della Congregazione degli O.s.f.s. nel settembre del 2005. Purtroppo la parrocchia di San Massimo, con mio grande dolore, sarà chiusa. Io verrò a San Francesco di Sales con il mio vice padre Gianni Cianfanelli. E ufficialmente sono il nuovo parroco di San Francesco di Sales dal 1 gennaio 2006».
Lei torna dopo tanti anni. Trova lo stesso quartiere che ha lasciato?
«All’epoca l’Alessandrino era una borgata. In alcuni punti c’erano ancora le baracche. Ci si arrangiava, c’erano tante famiglie povere. Padre Giuseppe e padre Pietro amavano andare a trovare le centinaia di bambini orfani che alloggiavano nell’Istituto Povere Figlie di Maria SS. Incoronata, le “nostre” suore qui vicino la parrocchia. Da allora molte cose sono cambiate, non so se in meglio o in peggio, altre sono rimaste perfettamente uguali. Ogni volta che torno qui, comunque, mi sento a casa. C’è la mia famiglia, ritrovo le mie radici».
Padre Gianni, è vero che lei è stato “discepolo” del parroco suo predecessore, padre Giuseppe Chiminello quando era formatore dei novizi della vostra congregazione religiosa?
«Quando decisi di entrare negli Oblati fui spedito con altri due confratelli in Francia, a Lione. Abbiamo fatto noviziato lì per un anno sotto la guida di padre Andrè Brix, poi siamo rientrati in Italia. Padre Giuseppe divenne in quel periodo responsabile dello studentato, dello scolasticato e del noviziato. Ci trasferimmo in una casa dei padri concezionisti a La Storta. E’ lì che è iniziata la nostra “avventura”.
Con noi all’inizio ci fu pure l’attuale amministratore parrocchiale padre Luciano Carlesso (cui tutta la comunità dei fedeli è riconoscente per averla traghettata in questo periodo di transizione, assieme all’altro confratello padre Giovanni Bortignon). Trascorsi lì quattro anni con padre Giuseppe. In realtà lo conoscevo già molto bene, essendo cresciuto in parrocchia.
Lui venne qui nell’estate del ’61, fu il primo oblato ad arrivare in parrocchia, poi lo raggiunsero padre Diego Fabris e padre Ruggiero Balboni, noto traduttore delle opere principali di San Francesco di Sales e primo parroco.
Feci la Prima Comunione con padre Giuseppe insieme a mio fratello e ad altre due sole ragazze. Ho fatto il chierichetto, il catechista, tra i “miei allievi” annovero il mio confratello padre Gianni Cianfanelli (all’epoca era così, tu potevi animare anche ragazzi poco più giovani di te).
Tutti mi ricordano come cantore del coro, anche se penso di non aver mai avuto una bella voce. Fu sempre Giuseppe a iniziarmi in particolar modo alla sua grande passione, la musica. Ricordo anche le prime esperienze dei gruppi giovanili, i campi estivi, il primo a Pretara sotto il Gran Sasso, l’anno dopo sulla Maiella, vicino Sulmona. Giuseppe è stato sempre un amante dei ritiri spirituali in montagna».
Quando è maturata la sua vocazione al sacerdozio, e che ricordo ha del “maestro” padre Giuseppe?
«La mia vocazione maturò poco prima e durante il periodo del servizio militare. Avevo già cominciato i primi due anni di Filosofia da laico al Seminario. Il mio rapporto con padre Giuseppe nel periodo dello studentato fu bello, ma sempre abbastanza conflittuale. Dopo un anno e mezzo nella villetta dei concezionisti, ci trasferimmo in una zona de La Storta chiamata Pantanaccio. Il primo periodo fu stupendo prestare servizio nella chiesa locale, che era la cattedrale della diocesi di Porto Santa Rufina. Ci dedicammo appunto al servizio pastorale nella cappella sotto la cattedrale, e mi trovai totalmente d’accordo con padre Giuseppe su quell’opera.
Il problema è che avevamo due caratteri molto simili, forti e quindi spesso ci scontravamo, ma in realtà nutrivamo una grandissima stima e rispetto reciproci. Giuseppe non era uno che faceva tanti complimenti, ti dimostrava affetto e riconoscenza a modo suo. Poi è arrivata l’ordinazione diaconale e fui trasferito a Pomezia.
Negli ultimi anni il rapporto è diventato quasi filiale. Quando l’estate venivo a Roma per stare un po’ con la mia famiglia, la sera uscivo per andare a cena dai parenti, ma poi tornavo a dormire in parrocchia. Giuseppe mi aspettava seduto in cucina finché non rientravo, per salutarmi».
Come si appresta a vivere questo passaggio di consegne dal padre al figlio?
«Raccogliere l’eredità di Giuseppe è una cosa che umanamente mi spaventa. Questo passaggio di consegne dal padre al figlio, come dice lei, rientra forse nel disegno del Signore. Non temo però il confronto, quanto la grande differenza tra Torino e Roma.
Non sarei un uomo se non avessi timori, e poi, come dice Gesù nel Vangelo: “Nessun profeta è bene accetto in patria”. Anche se io non sono un profeta e se per me si tratta solo di una patria di nascita, poiché manco da trent’anni. E’ come una nuova scoperta, un nuovo inizio.
Ho meditato molto prima di ricevere quest’incarico, pensando soprattutto a ciò che pensa Giuseppe da lassù. Non so se sia contento o preoccupato! Lui è uno che instancabilmente ha spezzato la parola di Dio per portarla alla gente del quartiere, in particolar modo ai giovani. Sicuramente in una cosa sarò suo degno successore: il caratteraccio».
Quali sono i suoi progetti e le sue intenzioni pastorali?
«A Torino la pastorale non è lasciata all’iniziativa privata del parroco, si tende a seguire le direttive della Curia, che poi ovviamente sono interpretate e vissute secondo l’impronta specifica dei diversi sacerdoti e dei diversi contesti. Qui a Roma ancora non so quello che troverò, ma sono sereno e fiducioso, confido nell’aiuto del Padreterno.
Il fatto di avere una mia esperienza non significa che non devo essere aperto al nuovo. Una cosa non esclude l’altra. Per indole sono molto aperto, non amo i settarismi. Penso che la parrocchia sia come una grande mamma che deve accogliere tutti i suoi figli, così come sono. Nessuno si deve sentire messo fuori perché non riesce ad inserirsi in una realtà istituzionalizzata. Certamente queste realtà già avviate e consolidate, come i Gruppi Giovanili cui padre Giuseppe ha dedicato tutta la sua vita e la sua missione, le Comunità Neocatecumenali, il M.a.s.c.i, hanno il diritto di conservare i loro spazi e di proseguire la loro opera».
(articolo di Marco Cappeddu apparso su Abitare a Roma il 23/01/2006)